Ispirazione Cristiana nel Diritto
A.N.A.C.
Associazione Nazionale Avvocati Cristiani
Grandi processi nella storia Il processo a Socrate
Secondo una affermazione paradossale ma significativa di uno dei grandi studiosi di Socrate, lo svizzero Olof Gigon  (Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Berna 1947), del famoso filosofo sappiamo con certezza ben poche cose, che nacque in Atene nel 470-469, che partecipò come semplice oplita ad alcune campagne militari, come quella di Potidea,  che era prìtane all’epoca del famoso processo agli strateghi delle Arginuse e che nel 399 a. C. fu sottoposto a processo dalla città di Atene e condannato a morte: volerne sapere di più è vana fatica. Socrate non ha lasciato nulla di scritto: l’immagine dell’uomo e del filosofo è dunque quella che ci giunge dalle fonti, che peraltro sono molto eterogenee e ci trasmettono quattro figure diverse: il sofista e filosofo naturalista anassagoreo delle Nuvole di Aristofane; il filosofo dei dialoghi giovanili di Platone (i cui tratti caratteristici sono la professione di ignoranza, l’equiparazione tra virtù e conoscenza, una filosofia morale che comporta la fedeltà alla legge fino alla morte ecc.); il Socrate moralista e superficiale di Senofonte; quello di Aristotele, che però non lo aveva conosciuto e ci trasmette l’immagine diffusa nel IV secolo a. C. Un libro di M. Montuori ha un titolo significativo: Socrate, fisiologia di un mito (Sansoni, Firenze 1974). E in effetti la figura di Socrate è cresciuta fino al punto di diventare una figura gigantesca - fino a segnare la nascita della filosofia nel nostro mondo occidentale - proprio in virtù di quelle stesse dinamiche che alimentano la vitalità dei miti, nei quali può succedere tutto e il contrario di tutto, suscettibili di crescere secondo forme alternative pur rimanendo sempre se stessi. E così nel tempo sul nome di Socrate si è formata l’immagine del saggio ingiustamente condannato, interpretata in chiave cristiana come una tipologia della condanna di Gesù Cristo. Questa immagine di Socrate ha avuto lunga durata, in pratica dall’antichità stessa fino all’età dell’Illuminismo, quando, nel processo di generale revisione delle conoscenze giunte per tradizione incappa anche il mito socratico. De Socrate iuste damnato è il titolo di un opuscolo dell’illuminista Sigismund Friderich Dresig, pubblicato a Lipsia nel 1738, che attribuisce la condanna di Socrate alla sua misodhmiva, cioè all’avversione per il governo del popolo, oltre che a certi fondati motivi di ritorsione che gli Ateniesi avrebbero avuto nei suoi confronti, in particolare per essere stato l’amico e il maestro di due personaggi che alla città avevano fatto gran danno: Alcibiade e Crizia. Noi e Socrate Perché dunque, di fronte alla nebbia storiografica che circonda la sua vicenda, tornare a parlare del processo che gli subì e della sua morte, a quasi due millenni e mezzo di distanza? Ritornare su questo tema non significa riaprire il processo a Socrate: non siamo in possesso di nuovi dati che consentano di rivedere la causa e, in ogni caso, non avremmo nessuna legittimità, perché Socrate fu giudicato nel 399 a. C., da quello che era il tribunale della città di Atene, con le sue consuetudini e il suo modo di funzionare. Ritornare su Socrate, quindi, non può che significare una riflessione nostra sul tema del contendere, cioè ritornare su questo famoso processo per ricostruirne quelle che in base ai dati in nostro possesso e soprattutto in base al nostro metodo storiografico ne furono le condizioni. Ma soprattutto per chiederci che cosa possiamo vedere nel processo a Socrate noi uomini del 2000. La domanda insomma non è se gli Ateniesi abbiano condannato Socrate a torto o a ragione (può essere vera l’una o l’altra ipotesi, a seconda dei punti di vista), ma che cosa noi possiamo trovarvi di istruttivo, di significativo: lo slogan dei classicisti ormai non è più “Gli antichi e noi”, ma, viceversa, “Noi e gli antichi”. Ben a ragione in un articolo che ha fatto epoca (originariamente pubblicato come uno dei saggi introduttivi al Dizionario della civiltà classica, BUR, Milano 1993) A. La Penna ha intitolato le sue riflessioni metodologiche sugli statuti dell’antichistica Noi e l’antico, intendendo distinguersi dal libro di Taddeo Zielinski, risalente ai primi del Novecento, intitolato L’Antico e Noi: e la recente opera che Einaudi sta dedicando ai Greci (I Greci. Storia Cultura Arte Società, Einaudi, vol. I, Torino 1996) intitola il primo volume Noi e i Greci. Il rapporto con gli antichi, insomma, non è mai monodirezionale, ma implica un confronto, un doppio binario: nell’antichità noi proiettiamo le nostre vedute, i nostri problemi, ed essa ci dà qualche risposta prospettandoci soluzioni già sperimentate, eventi già avvenuti. E nel giustificare le scelte fatte dagli antichi l’uomo moderno chiarisce a se stesso le ragioni che possono governare la sua autodeterminazione. La dialettica delle decisioni, anche di quelle prese nel passato remoto, è sempre interessante; cambiano gli esiti delle decisioni a seconda delle condizioni in cui esse furono assunte, ma la scelta che dipende da ragioni consapevoli presuppone schemi variamente combinati, ma sostanzialmente omogenei, come è omogenea la natura degli uomini nel tempo. Gli eventi Dopo questa premessa di metodo, partiamo dai dati assolutamente certi, cioè che Socrate fu portato in tribunale e condannato nel 399 a. C. L’accusa Il testo dell’accusa è conservato da Diogene Laerzio (III sec. d. C.), autore di un’opera in dieci libri sulla vita e le dottrine dei filosofi: "La dichiarazione giurata, che si conserva ancora, come dice Favorino, nel Metroo (archivio di stato di Atene), era così concepita: "Meleto, figlio di Meleto, del demo di Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò questa accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nuove divinità; è anche colpevole di corrompere i giovani. Si richiede la pena di morte". (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi II 5, 40) Il 399 a. C. Il 399 non è un anno rilevante per particolari avvenimenti: l’evento più noto è il processo di cui ci occupiamo. E’ merito di L. Canfora avere richiamato l’attenzione su una vera e propria serie di altri processi celebrati nel medesimo anno o negli anni vicini, dei quali siamo informati dalle orazioni di Lisia, e cioè, per limitarci ai più significativi: • Contro Andocide (399): oratore coinvolto nello scandalo delle erme, ritornato in Atene grazie all’amnistia del 403 e divenuto buleuta, viene colpito da una denuncia che riapre la vecchia piaga: i reati religiosi erano particolarmente gravi in Atene. • Contro Agorato (399): un agente provocatore al servizio dei Trenta. Aveva denunciato gli strateghi che si erano opposti alla pace imposta da Lisandro a tutto vantaggio dei Trenta. • Per un cittadino accusato di trame antidemocratiche (399): il cliente di Lisia, probabilmente nell’ambito di una dokimasìa (esame del passato dei magistrati eletti o sorteggiati, per verificare il possesso dei requisiti e le eventuali incompatibilità), era stato seguace dei Trenta e cerca di motivare questa ombra che grava sul suo passato. • Sull’esame di Evandro (399): altro caso di dokimasìa: l’imputato si difende da colpe commesse quando era cavaliere sotto i Trenta. • Contro Nicomaco (399): implicato nell’operazione di revisione legislativa promosso dai Cinquemila nel 410, poi fuoruscito sotto i Trenta e rientrato con i liberatori. • Contro Filone (399): dokimasìa di un buleuta che era stato un profittatore quando i democratici erano impegnati nella lotta contro i Trenta. Questi discorsi appartenenti al Corpus Lysiacum, anche se difficilmente tutti autentici (agli anni fra il 403 e il 401 risale la grande orazione Contro Eratostene, assassino del fratello di Lisia, Polemarco, durante il regime dei Trenta) danno l’idea di una fervida attività giudiziaria: in genere la percentuale delle opere che giungono a noi rappresenta una minima parte delle opere prodotte. Si potrebbe pensare che il 399 sia stato l’anno della vera e propria resa dei conti con i seguaci dei Trenta Tiranni, dopo l’amnistia del 403. Se infatti questa aveva sancito mh; mnhsikakei'n (“non ricordare i mali”, cioè “non serbare rancore”), c’è da credere che essa avesse solo rimandato le vendette politiche e che la tardiva resa dei conti si sia tradotta in una recrudescenza giudiziaria. Nello stesso 399 Senofonte, che era stato cavaliere sotto i Trenta, viene condannato in contumacia dopo che nel 401 aveva già provveduto ad andarsene da Atene nella spedizione in Persia al seguito di Ciro. Tuttavia, per capire qualcosa di questa complessa vicenda, non basta rifarsi all’evento più vicino. L’avversione per Socrate ha origini remote: le Nuvole di Aristofane si concludono con l’incendio del Pensatoio (la scuola in cui Socrate insegna dietro compenso l’arte di vincere qualsiasi causa) e anche nel Simposio di Platone Alcibiade conclude così l’elogio del maestro: “Soltanto di fronte a quest’uomo ho provato ciò di cui nessuno mi crederebbe capace, di vergognarmi di fronte a qualcuno: e io solo di fronte a lui provo vergogna. Sono consapevole di non poter contestare il dovere di fare ciò che egli mi ordina, ma d’altra parte, non appena mi allontano da lui, so di essere vinto dagli onori della folla. Dunque lo evito, lo fuggo e, quando lo vedo, mi vergogno di quanto avevo convenuto con lui. E molte volte sarei contento di vederlo morto; ma, se questo avvenisse, so bene che molto di più ne soffrirei, cosicché non so proprio come comportarmi di fronte a quest’uomo” (216 bc). Certo non può essere senza significato che già venticinque anni prima del processo (le Nuvole sono del 423 a. C.; il Simposio è ambientato nel 416 a. C. nella casa del poeta tragico Agatone) si pensasse con assoluta naturalezza, anche se in contesti particolari (la commedia muove all’insegna dello scherzo; Alcibiade è ubriaco), all’eliminazione fisica di Socrate. Evidentemente il filosofo era una persona scomoda, avvezza a provocare l’incoerenza degli Ateniesi benpensanti: del resto basta leggere quanto Socrate dichiara di sé nell’Apologia di Platone: “Io me ne vado in giro senza fare altro che persuadere i giovani a non prendersi cura dei corpi né delle ricchezze né di nessun’altra cosa prima dell’anima, che diventi buona il più possibile. E dico loro che non dalle ricchezze nasce la virtù, ma dalla virtù derivano le ricchezze e tutti gli altri beni agli uomini, in privato e in pubblico” (30 ab). Come avranno reagito i contemporanei a questa figura di filosofo cinico ante litteram? L’esclamazione di Callicle nel Gorgia di Platone (“Che tipo strano sei, o Socrate!”, 494 d) può valere come giudizio dei contemporanei: la atopia di Socrate significa dissenso, devianza rispetto ai valori comunemente riconosciuti, una devianza che doveva essere particolarmente irritante per una città ricca, potente, amante del lusso e del divertimento (così del resto la descrive l’Epitafio di Pericle in Tucidide) come l’Atene contemporanea. Per capire il rapporto tra Socrate e Atene, vale la pena di delineare succintamente la situazione della città nel periodo in cui vi fiorì Socrate, contemporaneo ai settant’anni della massima fioritura della città: si può dire che la vita del filosofo coincida cronologicamente con la parabola dell’ascesa e del declino di Atene stessa. I precedenti La Lega delio-attica e l’egemonia di Atene. Socrate nasce in Atene nel 470-469, nell’anno in cui la battaglia dell’Eurimedonte libera definitivamente la Grecia dalla minaccia persiana.Già da alcuni anni Atene è alla testa della lega delio-attica, fondata nel 477 a. C. dopo le due guerre persiane e nata dalla volontà degli Ateniesi e dei loro alleati di continuare a oltranza la guerra contro la Persia. Essa rappresenta l’assunzione, da parte della città, di un ruolo egemone fondato sulla riscossione di un tributo, depositato nell’isola sacra di Delo e destinato a costruire le navi necessarie per continuare la lotta contro la Persia. Ma ben presto Atene trasforma la lega in un impero, cosicché, quando con alcuni fortunati scontri (battaglia dell’Eurimedonte in Panfilia del 469) e con la pace di Callia del 449 il pericolo persiano appare eliminato, riesce facile a Pericle investire il tesoro della lega nel rifare il volto monumentale di Atene capitale. La grande democrazia attica Ma Socrate è anche contemporaneo della grande stagione della democrazia attica. Già fondata dalla riforma di Clistene agli inizi del secolo, la democrazia reale entra in funzione dopo l’ostracismo del conservatore Cimone (462) e la riforma dei diritti dell’Areopago per opera di Efialte (461). Il venerando tribunale, in quanto composto da arconti usciti di carica, era la roccaforte dell’oligarchia e aveva aggiunto ai suoi poteri giudiziari quello politico della sorveglianza delle leggi, una sorta di controllo della costituzione che rappresentava il principale ostacolo al dispiegamento della democrazia. La riforma di Efialte passò le competenze politiche all’ekklesìa e alla Bulè, quelle giudiziarie (fatta eccezione per i reati di sangue) all’Elièa, il tribunale popolare che era stato istituito da Solone e che divenne da quel momento il principale tribunale ateniese. L’Elièa, il tribunale che giudicò Socrate, constava di 6000 cittadini sorteggiati, 60 per tribù, tra i cittadini che avevano compiuto i trent’anni, i quali operavano divisi in dieci sezioni mediamente di 600 giudici che sedevano anche riunite per tutto l’anno. Ucciso Efialte in torbidi di parte, gli succede Pericle, che dirige ininterrottamente per quasi un trentennio la vita politica ateniese in veste di stratego adottando, tra le altre, alcune misure che favoriscono l’integrazione tra il cittadino e la vita politica (la misthophorìa) e culturale (il teorikòn) della polis. La guerra del Peloponneso Ma Pericle fu anche il responsabile della guerra del Peloponneso, la guerra contro Sparta combattuta dal 431 al 404, da lui voluta come necessario complemento dell’imperialismo ateniese. Pericle morì di peste nel 429 e non giunse a vedere gli effetti devastanti del conflitto: basta dire che in questa guerra, che fu la “guerra mondiale” della storia greca, avvenne ciò che assolutamente non era prevedibile, cioè che la massima potenza dell’epoca, la più evoluta economia cittadina, fondata sul controllo marittimo, uscì sconfitta dal conflitto con la lega peloponnesiaca ruotante intorno a Sparta e composta da popolazioni povere di montanari. Nella guerra, che vede contrapposti due sistemi di governo – la democrazia ateniese e l’oligarchia spartana – si scontano errori strategici (la spedizione in Sicilia voluta da Alcibiade) e contraddizioni politiche quali le divisioni all’interno della città tra democratici e oligarchici e il conflitto tra democrazia interna e imperialismo brutale nella politica estera. Il colpo di stato oligarchico del 411 L’evento della sconfitta è gravido di risvolti nella politica interna. Già nel corso della guerra, il fallimento della spedizione in Sicilia (415-413) aveva provocato un contraccolpo politico nel colpo di stato oligarchico del 411. L’assetto democratico ateniese dell’età classica, infatti, non prevede una sorta di bipolarismo tra democratici e oligarchici quale noi potremmo immaginare sulla scorta delle nostre abitudini, ma un patto tra il demo e i “signori” che lo guidano. Gli oligarchici, invece, cioè quelli che avversano tale sistema, stanno alla finestra ad aspettare l’occasione buona per prendere il potere a loro volta, anche se non si fanno illusioni circa l’imminenza del loro momento, come dimostra la Asthenaion politeia attribuita a Crizia. Il disastro siciliano, dunque, suggerisce di mettere in atto un primo tentativo, realizzato da un comitato di dieci probùli, il quale abolisce alcune istituzioni tipicamente democratiche (la misthophorìa e la graphè paranòmon), sostituisce alla Bulè dei 500 scelti per sorteggio un organo di 400 persone scelte per cooptazione e all’assemblea di tutto il popolo un corpo di 5000 cittadini scelti in base al censo. Intanto i 400 avviano trattative segrete con Sparta. Anima del complotto è Alcibiade, che però non appena avverte la debolezza dell’operazione, unicamente legata all’insuccesso bellico, prende le distanze e si fa garante della restaurazione democratica, che avviene nel 410 partendo da Samo, dove aveva stanza la flotta ateniese. L’affaire delle Arginuse Le trattative dei 400 con Sparta, il ritorno trionfale di Alcibiade in Atene nel 408 e la torbida affaire delle Arginuse denotano una volontà di farla finita. La vittoria nella battaglia navale delle Arginuse (406), infatti, costa ad Atene la perdita dei suoi migliori generali, condannati a morte per non aver raccolto i naufraghi. La procedura sommaria non si svolge nella sede propria del tribunale, ma in quella impropria dell’Ecclesìa, dove una folla vociferante, esagitata dalle losche speculazioni di Teràmene, grida a chi invoca procedure legali che era grave che non si permettesse al popolo di fare ciò che voleva. Solo Socrate, che in quel periodo era prìtane (uno dei cinquanta membri della Bulè che per un decimo dell’anno svolgeva funzione esecutive) e forse anche epistàtes (presidente, una carica che durava un giorno solo) “disse che non avrebbe fatto nulla di illegale” (Senofonte, Elleniche I, 7, 15). Il gioco di Teramene è nell’immediato quello di scagionare se stesso (in quanto trierarca aveva ricevuto dagli strateghi l’ordine di raccogliere i naufraghi, ma ne era stato impedito dalla tempesta) e in prospettiva quello di privare Atene degli strateghi accelerandone la sconfitta. Il processo agli strateghi viene talora prospettato come un atto di follia dell’Ecclesìa: in realtà, come osserva Musti, si tratta dell’espressione di “una esasperata e implacabile coerenza, che non volle sanare un comportamento colpevole neanche con gli allori della vittoria”. Ma in esso si può anche vedere, sempre con Musti, “una sorta di oscura (e composita) volontà di farla finita con una guerra disperata”. La sconfitta di Atene La sconfitta definitiva di Atene avviene nella battaglia di Egospotami (405), nei Dardanelli. La pace, negoziata da Teramene, prevede tra l’altro (distruzione delle Lunghe Mura e delle fortificazioni del Pireo, consegna della flotta tranne dodici navi, ritorno degli esuli ecc.) una riforma costituzionale. L’assemblea convocata dal vincitore spartano Lisandro per decidere la nuova costituzione instaura una costituente di trenta ateniesi di cui dieci scelti da Teramene, dieci nominati dai circoli oligarchici, mentre gli ultimi dieci sono scelti tra i presenti, verosimilmente tra i più decisi nemici del regime precedente. Democratici e moderati abbandonano l’assemblea: i Trenta, sostenuti da una guarnigione spartana, danno inizio al loro regime nell’estate del 404. La tirannide, la guerra civile e la ricomposizione della polis. L’ala più estremista dei Trenta, rappresentata dall’allievo di Socrate Crizia, ha l’obiettivo di trasformare Atene in una copia di Sparta: il pogrom contro i meteci (ricchi stranieri immigrati in Atene, come la famiglia di Lisia) non è solo un modo per arricchirsi ma rientra organicamente nel progetto di impoverire l’Attica rendendola simile a Sparta, di laconizzare l’Attica per usare l’espressione di Canfora. I metodi spietati di Crizia (“qualora ci rendiamo conto che qualcuno è contrario all’oligarchia, per quanto possibile ce ne sbarazzeremo”; Senofonte, Elleniche II 3, 26) ebbero ben presto ragione dell’opposizione interna, rappresentata dal moderato Teramene, messo a morte in una scena patetica raccontata dallo stesso Senofonte, il quale, pur essendo un testimone di parte aristocratica, delinea un terribile bilancio della tirannide dei Trenta che, a suo dire, “in otto mesi uccisero più Ateniesi di quanti ne uccisero tutti i peloponnesiaci in dieci anni di guerra” (II 4, 21). Qui il cerchio incomincia a chiudersi intorno a Socrate. Il capo dei Trenta, Crizia, era stato suo allievo, come Carmide; Alcibiade, che non era vissuto tanto da vedere la tirannide dei Trenta perché era stato fatto assassinare in Frigia da Lisandro subito dopo Egospotami nel 404, era stato l’anima di tutti i movimenti più proditori negli anni di guerra; Senofonte, anche se il suo nome emerge più tardi, era stato cavaliere all’epoca dei Trenta e sappiamo che i cavalieri, un corpo scelto affine ai cavalieri spartani, erano stati gli squadristi dei Trenta, tanto che, dopo il rientro dei democratici e l’amnistia del 403, l’assemblea di Atene ne inviò trecento di quelli che avevano militato sotto i Trenta in una spedizione in Asia al seguito di Sparta “credendo che fosse un guadagno per la democrazia se se ne fossero andati e fossero morti in terra straniera” (Elleniche III 1, 4): Senofonte non è tra questi, ma di lì a qualche mese si arruola mercenario per conto di Ciro in guerra con il fratello Artaserse per questioni dinastiche. Prima di partire chiede consiglio a Socrate, poi, di fronte alle esitazioni di questo, all’oracolo di Delfi e infine scompare da Atene per sempre, come chi presenta una vendetta: due anni più tardi viene raggiunto in Asia dalla notizia che è stato condannato all’esilio. Il sospetto di una qualche compromissione di Socrate è avvalorato dalla cura con cui Platone cerca a più riprese, nell’Apologia e nella VII Lettera, di sottolineare le distanze tra Socrate e i Trenta, i quali, per renderlo loro complice, gli avrebbero imposto di andare a catturare il democratico Leone di Salamina per mandarlo a morte: un ordine al quale Socrate oppose un severo diniego: “quel governo, pur essendo così duro, non mi spaventò fino al punto da indurmi a commettere un’ingiustizia; e così, dopo che fummo usciti dalla Tholos, i quattro andarono Salamina e condussero qui Leone, io invece me ne tornai a casa mia. E forse sarei morto per questo motivo, se il governo non fosse stato rovesciato di lì a poco” (Platone, Apologia 32 d). Ma il legame tra Socrate e i Trenta non deve essere inteso in senso diretto, ma in senso lato, un po’ come noi diciamo che Cicerone fu l’ispiratore dei Cesaricidi. La cacciata dei Trenta e il rientro dei democratici La restaurazione democratica fa capo a Trasibulo, che con un contingente di 70 uomini occupa la fortezza di File, sul confine tra l’Attica e la Beozia, nell’inverno del 403. Dopo aver ricevuto rinforzi dall’Attica, si impossessa del Pireo e, nel maggio del 403, affronta i Trenta in battaglia sul colle di Munichia. Crizia muore nello scontro; i Trenta sono costretti a rimettere il potere al collegio dei Dieci, eletti uno per tribù, e a ritirarsi a Eleusi. L’intervento spartano è vanificato dai contrasti tra il generale Lisandro e il re Pausania II e in questo modo Trasibulo nell’autunno del 403 può rientrare in Atene e restaurare la democrazia. L’amnistia La pace è fatta a condizione che Atene mantenga l’alleanza con Sparta e conceda un’amnistia ai cittadini compromessi con i Trenta. Il testo formale dell’accordo è tramandato da Aristotele e datato all’anno 403-2: “I processi per reati di sangue avvengano secondo le leggi patrie, se qualcuno ha ucciso o ferito un altro di propria mano. Delle cose avvenute in passato non è lecito a nessuno serbare rancore (mnhsikakei'n) contro un altro, se non contro i Trenta, i Dieci, gli Undici e i comandanti del Pireo e neppure contro questi qualora diano ragione del loro operato [cioè superino un processo di rendiconto]. I magistrati del Pireo rendano ragione alla gente del Pireo e quelli della città ai cittadini che abbiano un reddito dichiarato. Dopo di che quelli che vogliono emigrare potranno farlo” (Costituzione degli Ateniesi 39, 5-6). In pratica l’amnistia sanciva la restaurazione democratica in Atene e il mantenimento di un piccolo stato oligarchico a Eleusi. L’amnistia non era certamente dovuta a spirito di riconciliazione, ma al fatto che la pacificazione era avvenuta sotto il controllo di Sparta e che i democratici, oltre a essere divisi al loro interno, non rientravano come vincitori in senso assoluto ma per volontà di Pausania. Solo un paio d’anni dopo (401-400), in concomitanza con l’indebolirsi del controllo spartano e il rafforzamento dell’ala radicale dei democratici, l’effimera “repubblica” di Eleusi viene eliminata: gli Ateniesi attaccano Eleusi uccidendo a tradimento i capi oligarchici: l’Attica si riunifica sotto il governo del “popolo di Atene”. Il processo a Socrate Si tratta ora di stabilire se intercorra un nesso tra queste vicende e l’evento del 399, il processo a Socrate. Il nesso da evidenziare è che nelle vicende di quegli anni ricorre con una certa frequenza il nome di Anito, l’accusatore di Socrate. Anito è un uomo politico di parte moderata, seguace di Teramene, passato poi tra i democratici di Trasibulo. Un “Argomento” delle Nuvole di Aristofane dice che sarebbe stato lui a commissionare questa commedia e la notizia trova riscontro in Diogene Laerzio: “… si riversò sopra di lui una grande invidia, soprattutto per il fatto che accusava di insipienza quelli che avevano una grande opinione di sé, come, per esempio, Anito […]. Questi mal sopportò la canzonatura di Socrate e prima sobillò contro di lui Aristofane e i suoi amici, poi convinse Meleto a denunciarlo per corruzione dei giovani con l’accusa di empietà” (Diogene Laerzio II 38). Finley (Socrate e dopo, in La democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 77-106) definisce Anito “un personaggio politico eminente e responsabile che aveva alle spalle una carriera abbastanza insigne e meriti patriottici. Tra l’altro Anito era stimato come fautore di una rigida applicazione della amnistia”. E conclude: “La sua partecipazione garantisce che il processo di Socrate non può essere sbrigativamente definito una semplice vendetta politica. In realtà soltanto in seguito fu interpretato come tale, perché dai commenti dell’epoca questa versione non traspare affatto; certamente a quei tempi un processo per empietà poteva essere accettato senza problemi per quello che era” (p. 96). E’ anche vero, tuttavia, che l’amnistia non consentiva di intentare processi per motivi politici: la denuncia, quindi, non poteva che riferirsi a essi in via indiretta. D’altra parte le vedute politiche di Socrate non sono così nette: all’immagine dell’oligarca è stata anche contrapposta l’immagine di un Socrate democratico, che sarebbe stato tradito dal suo discepolo, il Platone totalitario. Certamente Socrate è critico nei confronti della democrazia in base al principio della competenza, tradito dal criterio del sorteggio delle cariche, ma mancano ragioni sufficienti per classificarlo come fautore dell’oligarchia: Socrate era rimasto in città durante il dominio dei Tenta, è vero, ma era stato egli stesso una vittima dei Trenta, come dimostra l’episodio di Leone di Salamina. D’altra parte, l’amnistia era frutto di un accordo tra i due gruppi della cittadinanza: Anito è l’esule democratico, anche se fra i democratici è un tradizionalista; Meleto, anche se difficile da identificare (vi sono almeno sei-sette persone con questo nome nel periodo), potrebbe essere sia uno di quelli che andarono ad arrestare Leone di Salamina, sia uno degli ambasciatori a Sparta nel 403: in ogni caso si tratta di un uomo di parte oligarchica, che probabilmente ha collaborato con i Trenta e ora prende parte all’accordo con i democratici. Ciascuno dei due accusatori rappresenta un gruppo: secondo la formula di De Sanctis, l’unità richiedeva una vittima. Per la parte oligarchica la rovina era stato Crizia; per i democratici era stato Alcibiade: Socrate era stato maestro di entrambi, padre degli opposti estremismi. Come poteva non essere la vittima designata, immolata alla nuova concordia, un po’ come Cicerone lo fu per l’accordo triumvirale? Il reato di empietà I due capi d’accusa formali sono empietà e corruzione dei giovani. Il reato di empietà aveva ricevuto una configurazione giuridica nel decreto di Diopìte, risalente alla generazione precedente. Questo oscuro personaggio, detto chresmològos (“raccoglitore di oracoli”), in nome di una religiosità popolare tradizionalista e retriva intorno al 433 aveva colpito con l’accusa di asébeia Anassagora, il filosofo teorico del Nous come principio universale, che era stato maestro di Pericle e rappresentante dell’impulso razionalistico. Il testo del decreto è noto attraverso Plutarco, Vita di Pericle 32: “Sono passibili di denuncia e devono essere processati quelli che non credono negli dèi e tengono lezioni intorno alle entità celesti”. La gravità di questa accusa si comprende solo tenendo conto dell’importanza che la religione aveva all’interno dello stato. Per rendersene conto basta pensare alla mutilazione delle Erme e ai contraccolpi di essa sulla spedizione in Sicilia: essa in pratica rovina il vertice della spedizione privandolo di Alcibiade; a sua volta l’insuccesso della spedizione pone le premesse del colpo di stato del 411 e indebolisce Atene provocando i successivi insuccessi. Ma si capisce anche che questa è un’accusa strumentale, che spesso serve come copertura per processi politici (per esempio l’accusa di empietà colpì anche Aspasia, la concubina di Pericle, attraverso la quale, come attraverso lo scultore Fidia, si intendeva colpire lo statista). Per Socrate il fatto di theoùs ou nomìzein (“non onorare gli dei”, cioè non credere negli dèi in cui crede la città) può riferirsi letteralmente all’immagine del Socrate anassagoreo delle Nuvole, ma estensivamente allo spirito critico che il filosofo pone a base del suo magistero, tanto più se si considera che Anito – interlocutore di Socrate nel Menone - è un tradizionalista, figlio di un artigiano, cioè il tipico democratico che decide con il lavoro il suo ruolo sociale. E quando, nel medesimo dialogo, Socrate contesta la tesi di Anito secondo la quale tutti gli Ateniesi che siano persone per bene e oneste possono essere maestri di virtù politica, Anito risponde con le minacce: “O Socrate, mi sembri disposto a parlar male della gente. Perciò, se vuoi ascoltarmi, ti consiglierei di star attento, perché, se anche nelle altre città è più facile fare male che fare bene agli uomini, in questa città lo è in modo particolare. E credo che questo anche tu lo sappia” (Menone 94 e). L’accusa di corrompere i giovani All’accusa di empietà si aggiunge quella di diaphtheìrein toùs néous. In questa fin da subito la Kategorìa di Policrate aveva visto la responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e di Alcibiade, come educatore degli uomini che avevano tradito la democrazia e avevano cospirato con il nemico per affrettare la caduta di Atene e offrire la prova tangibile dell’inefficienza del sistema democratico. Ma qual era il motivo di una recriminazione tardiva, visto che ormai i due erano stati liquidati? Evidentemente il processo in atto nella polis era quello di ricostruirne l’unità che era stata frantumata dall’azione dissolvitrice del lògos di Socrate. Per consolidare l’unità riconquistata era necessario chiudere con il passato. Ma Socrate non poteva essere processato per ragioni politiche apertamente dichiarate perché l’amnistia non lo consentiva. L’accusa interpretava il sentimento comune, che doveva pur trovare qualcuno con cui risentirsi per tutti quanto era successo: ora che l’unità cittadina si era ricostruita, occorreva evitare che si continuassero a produrre i Crizia e gli Alcibiade, cioè che Socrate continuasse con il suo magistero. Espressa in questi termini la reazione della città appare certamente esagerata e questo accredita l’idea del Socrate giusto condannato ingiustamente. Ma di due fattori è necessario tenere conto: - in primo luogo che l’intenzione effettiva dell’accusa non era certamente quella di uccidere Socrate: anche Alcibiade nel Simposio dice che a volte arriva al punto di desiderare la morte di Socrate e le Nuvole mettevano in scena l’incendio del Pensatoio, ma parlare di morte nell’antica Grecia è assai frequente e non si deve pensare a una pena di morte come oggi la si intende: per lo più la richiesta di morte mirava a eliminare dalla circolazione il soggetto incriminato. Anche in questo caso, il progetto di Anito non sarà stato quello di eliminare un uomo che dava fastidio creando un martire che sarebbe stato – come in effetti fu – ancora più ingombrante. Anche se l’accusa aveva chiesto la condanna a morte, la prima votazione si limita a riconoscere Socrate colpevole con uno scarto modesto di trenta voti (280 contro 220). Solo dopo che egli ha provocato i giudici avanzando la controproposta di essere mantenuto a spese pubbliche nel pritanèo, arriva la condanna a morte con 360 voti. Ma anche così il destino di Socrate non era ancora segnato: era infatti consuetudine che il condannato a morte evadesse dal carcere con il tacito consenso della citttà. - in secondo luogo bisogna tenere conto del tipo di tribunale che giudicava Socrate. L’Elièa è uno dei vari tribunali operanti in Atene: era il tribunale popolare, il massimo collegio giudicante, con giurisdizione su quasi tutti gli affari dello stato, sulle cause civili e criminali, fatta eccezione per quelli riservati ai tribunali speciali (l’Areopago per i delitti di sangue; il Palladio per l’omicidio involontario; il Delfinio per l’omicidio legittimo; il Freato per esuli incolpati di delitto premeditato). Era composto da 6000 giudici (circa un quarto del corpo civico, che si calcola intorno ai 21000 cittadini) scelti per sorteggio in ragione di 600 per tribù tra i cittadini che avevano compiuto i trent’anni, e si articolava in dieci sezioni. Nel processo a Socrate il collegio giudicante era composto da 500 membri (più uno per evitare la parità dei voti). Erano previsti due tipi di azioni giudiziarie, quella privata (dike) e quella pubblica (graphè): poiché mancavano organi di stato deputati ad assumere iniziative giudiziarie con una funzione che oggi è quella svolta dal pubblico ministero, nel caso di interesse privato l’iniziativa giudiziaria dipendeva dalla volontà dell’offeso, nel secondo era concessa a tutti i cittadini in quanto la parte lesa era tutta la città nel suo complesso. Il dibattimento era pubblico e si svolgeva rapidamente perché solo l’accusa e la difesa avevano la parola e per un tempo determinato, risolvendosi in una sorta di agone oratorio tra le parti, mentre i giudici si limitavano ad ascoltare: essi in sostanza non erano che giurati investiti di una funzione arbitrale (il diritto attico muove dal principio che iura non novit curia) e pronunciavano la sentenza a caldo, essendo venuti a conoscenza della causa solo nel corso del dibattimento. Questo grande tribunale, contro il quale si rivolge la satira di Aristofane nelle Vespe, forniva un adeguato sfogo alla mania dei processi e all’animosità politica dei cittadini di una città libera. Quindi, che cosa possono aver pensato i giudici che in numero di 281 contro 220 (quindi con uno scarto di soli 31 voti) giudicarono colpevole Socrate? Questo processo non era inevitabile: Socrate non aveva commesso reati nel vero senso della parola. Tuttavia, una volta depositata l’accusa, era inevitabile che egli dovesse essere giudicato. La ragione della condanna risiede verosimilmente nel fatto che la maggioranza del tribunale ha fatto proprie le ragioni di Anito, cioè ha ritenuto che la città avesse subito un danno dal magistero del filosofo: questa votazione era il momento di una resa dei conti nella quale andava a compimento una avversione di lunga durata nei confronti di un uomo che con la sua atopia non aveva mai smesso di provocare l’astio dei concittadini, che non era ben visto all’interno della comunità perché la metteva in crisi punzecchiandola come un tafano, per usare l’immagine di Platone. Oblio e memoria nella riconciliazione Quello di Socrate, dunque, è un processo che può essere detto politico ma in senso lato: non cioè nel senso che egli sia vittima di una epurazione o di una vendetta politica. La politica è nello sfondo e sicuramente emerge dalla contrapposizione tra il democratico Anito e Socrate critico dell’incompetenza dei politici in un sistema fondato sul sorteggio delle cariche, che nel processo delle Arginuse prende posizione contro la folla vociante nell’Ecclesìa, che coltiva amicizie con gli ambienti oligarchici rappresentati da Crizia, Senofonte e dallo stesso Platone. Ma, condannando Socrate, il tribunale ha anche inteso affermare qualcosa. In questa conclusione traggo spunto da un recente articolo del classicista e antropologo Maurizio Bettini (Il perdono storico. Dono, identità, memoria, oblio, “il Mulino” 49, 2000, pp. 411-428), secondo il quale le dinamiche del riconoscimento della colpa e della richiesta di perdono – da quella di Agamennone ad Achille nell’Iliade a quella del documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato a quella di Massimo D’Alema a Gheddafi per le responsabilità del colonialismo italiano sono soprattutto una ricerca di identità, come a dire che c’è qualcosa nel proprio passato che turba e che deve essere rimosso per poter riprendere l’immagine di sé. Ebbene, nel caso dell’amnistìa dopo la cacciata dei Trenta, il divieto di ricordare indica la volontà di ricostruire la vita civile non sul ricordo delle colpe, che avrebbe portato a una nuova guerra civile, a processi e condanne, ma sulla dimenticanza delle colpe, cioè sul perdono delle colpe stesse. Il divieto era così drastico da punire con la morte l’atto del ricordare: sempre secondo Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 40, 2), Archino, uno dei principali fautori della pacificazione, “quando uno di quelli che erano rientrati cominciò a mnhsikakei'n, avendolo condotto davanti al Consiglio e avendo persuaso il Consiglio a condannarlo a morte senza giudizio, disse che allora avrebbero dimostrato se volevano salvare la democrazia e attenersi ai giuramenti: rilasciando infatti quell’uomo, avrebbero indotto anche gli altri a imitarlo, qualora invece lo avessero soppresso, avrebbero dato l’esempio a tutti”. Ma questa amnestìa si fonda solo sulla dimenticanza, come dice la formazione etimologica, implica l’oblìo totale o una forma particolare di ricordo? Prendo un’altra citazione da Bettini, un brano molto bello e significativo desunto da un discorso di Cleocrito, il quale, dopo la battaglia di Munichia, nella quale sono ormai caduti Crizia, Carmide e altri dei Trenta, si rivolge così ai superstiti dell’oligarchia: “Cittadini, perché ci cacciate? Perché volete ucciderci? Noi non vi abbiamo mai fatto nulla di male, ma abbiamo preso parte con voi alle cerimonie più sacre e ai sacrifici e alle feste più belle e siamo stati compagni di coro e siamo stati insieme a scuola e in armi e con voi abbiamo affrontato molti pericoli per terra e per mare per la salvezza comune e per la libertà. In nome degli dèi dei nostri padri e delle nostre madri e della nostra comunanza di stirpe e di parentela e di gruppo, smettete di far danno alla patria e non ubbidite alla somma empietà dei Trenta, che per i loro privati interessi hanno ucciso in otto mesi più Ateniesi che tutti i Peloponnesiaci in dieci anni di guerra” (Elleniche II 20-21). Il discorso di Cleocrito, dunque, non fa perno sull’oblio, ma sulla memoria. Può sembrare una contraddizione, ma non c’è riconciliazione senza memoria: la riconciliazione, infatti, da una parte, implica la rimozione delle colpe, degli errori, delle divisioni, dall’altra l’attivazione dei rapporti comuni. Ma in questo progetto non c’era posto per Socrate. Scegliendo quale doveva essere la loro memoria, gli Ateniesi dovevano rimuovere chi aveva contribuito a incrinare l’unità delle coscienze. La città, dunque, interviene nella libertà del cittadino con una sorta di ostracismo: a controllo delle devianze e a protezione di se stessa. Dietro i fenomeni di intolleranza – che peraltro nel mondo antico sono assai meno numerosi che nella storia moderna e in quella contemporanea – c’è sempre la paura, qualunque sia la forma di governo che attua la repressione. Che cosa temevano dunque gli Ateniesi di inizio quarto secolo tanto da dover procedere, nonostante l’amnistia, a processi e condanne? Risponde Finley: “… temevano di perdere un modo di vivere costruito pietra su pietra nel corso di mezzo secolo, fondato sull’impero e sulla democrazia; un modo di vivere che […] generava prosperità materiale e al tempo stesso soddisfaceva psicologicamente e culturalmente […]; che era stato collaudato e minacciato in una lunga e difficile guerra; che aveva anche bisogno della benevolenza o almeno della neutralità degli dèi” (art. cit., p. 104). Socrate sceglie di andare a morte Ma qui interviene l’imprevisto, il colpo di scena, la sconvolgente testimonianza di quel cittadino che, invece di farsi scudo della propria libertà, preferisce andare incontro alla morte dimostrando la propria lealtà verso lo Stato, piuttosto che abbassarsi a supplicare i giudici o fuggire violando e per ciò stesso invalidando le leggi dello Stato, le quali, secondo la figura di prosopopea creata da Platone nel Critone, gli si presentano in figura di donne biancovestite e gli dicono: “Ebbene, o Socrate, ti sembra che possa continuare a esistere e che non sia sovvertita dalle fondamenta quella città nella quale le sentenze emesse non abbiano alcun vigore, ma siano destituite e rese vane da privati cittadini?” (Critone 50 b). La risposta di Socrate alle Leggi è ouj mevmfomai: “non ho nulla da rimproverarvi”: egli non inveisce contro la città; il suo non è un percorso di rottura, ma di nativa obbedienza, alla fine del quale non approda alla scelta “totalitaria” che sarà di Platone e all’ammirazione per la costituzione di Sparta, nonostante la tensione tra la cultura democratica radicale e le prospettive del suo insegnamento. Se vogliamo tener fede a un positivo mito di Socrate, è giusto che esso nasca di qui: dalla sua innocenza tutta iscritta nella vita della città. Una innocenza che però ci consente anche la percezione dell’enorme distanza che separa il senso civico dell’uomo della polis dalla nostra concezione del rapporto tra leggi dello stato e diritti della coscienza individuale: Socrate ci dice che ogni concessione alla coscienza individuale, quando questa sia in contrasto con le leggi dello stato, equivale a indebolire lo stato: e questa è una lezione che ci riguarda molto, ma molto da vicino. Anassagora, accusato di ateismo, si era sottratto alla condanna e alla morte lasciando Atene; Socrate volle affrontarla. Anassagora non divenne un simbolo per le generazioni a venire: Socrate sì. Questa sera stiamo tentando di caricare questo simbolo di contenuti attendibili, capaci di parlare alla nostra realtà di uomini d’oggi.  Tavola cronologica 1. Quadro generale (V sec. a. C.) 490 Battaglia di Maratona 480 Battaglia di Salamina 478 Fondazione della lega delio-attica 469 Battaglia dell’Eurimedonte. Anno di nascita di Socrate 461 Riforma dell’Areopago 449 Pace di Callia 431-404 Guerra del Peloponneso 429 Morte di Pericle 416-415 Spedizione contro Melo 415-413 Spedizione e disfatta ateniese in Sicilia 411 Colpo di stato oligarchico e governo dei Quattrocento 2 Avvenimenti relativi agli ultimi anni di Socrate 406 Battaglia delle Arginuse e processo agli strateghi 405 Sconfitta Ateniese a Egospotami 404 (primavera) Resa di Atene (giugno-dicembre) Regime dei Trenta Tiranni (novembre-dicembre) Scontri di File e del Pireo tra gli esuli democratici e le truppe dei Trenta 403 Restaurazione della democrazia e amnistia ad Atene. Gli oligarchici si ritirano a Eleusi 401-400 Fine dello stato oligarchico di Eleusi 399 Processo e morte di Socrate  Angelo Roncoroni